Nell’anno di grazia 1863, un imprenditore francese, Martin Ravel de Montagnac nel porto di Marsiglia si imbatté in un cesto di tartufi che era appena arrivato da Civitavecchia.
L’intraprendente commerciante fece il viaggio inverso per trovare i produttori di quei tartufi tanto buoni. Si imbarcò verso il “porto di Roma” ma naturalmente nella città laziale non trovò niente. Qualcuno gli disse che erano giunti dalla capitale. A Roma si trasformò in detective ma fu facile per lui trovare la strada giusta: quei tartufi erano stati portati nella capitale e poi spediti in Francia da negozianti originari dell’Umbria.
Ravel de Montagnac arrivò a Spoleto e da allora niente fu come prima: acquistò tartufi in grande quantità, i prezzi salirono e i “cavatori” aumentarono. Nacque una vera e propria industria nella quale i francesi, per un ventennio, furono, di fatto, monopolisti.
Forse il più grande testimonial del tartufo in quel periodo fu Gioacchino Rossini, che definì il tartufo “il Mozart dei funghi”. Il grande musicista italiano aveva eletto la Francia a sua seconda patria.
Era un vero “bon vivant” che amava ripetere che “mangiare, amare, cantare e digerire sono i quattro atti di quell’opera comica che è la vita”. Tra il serio e il faceto, confessò di aver ceduto alle lacrime solo tre volte in vita sua. La terza, per colpa dei tartufi: “Una sera, in barca, sul lago di Como. Si stava per cenare e io maneggiavo uno stupendo tacchino farcito di tartufi.
Quella volta ho pianto proprio di gusto: il tacchino mi è sfuggito ed è caduto nel lago!”. Su come mangiarli Rossini aveva le idee chiare. E anche una particolare ricetta riservata ai tartufi bianchi: “Mettere in una insalatiera dell’olio finissimo, della mostarda fina inglese,
dell’aceto fino, un po’ di sugo di limone, del pepe e del sale. Battere il tutto fino a perfetta combinazione e mescolarvi i tartufi ridotti a fettine”. Per i tartufi neri, suggeriva: “Alla mescolanza aggiungere un tuorlo d’uovo sodo ed un leggerissimo odore di aglio”.
Dedicò alla sua passione culinaria ricette strepitose che portano ancora il suo nome, come i “Maccheroni alla Rossini”, ripassati in padella con il tartufo e i famosi “Tournedos alla Rossini”, pregiati cuori di filetto di manzo cucinati al sangue e poi coperti con foie
gras e guarniti con il tartufo.
Nella calda estate del 1868 Gioacchino Rossini viveva a Parigi. Ma chiedeva tartufi di qualità dall’Umbria, con una lettera spedita il 18 agosto ad un commerciante spoletino.
Si firmava, con incredibile modestia, “ex compositore di musica”. Quei tartufi partirono in fretta per Parigi per la felicità dell’immortale autore del Barbiere di Siviglia e del Guglielmo Tell. La missiva vergata dal grande compositore che adorava i tartufi almeno
quanto la musica, ora è conservata nel museo del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto.
Dietro le etichette del rinomato tartufo del Perigord, di Vaucluse e di Carprentas che tanto successo ebbe dalla seconda metà dell’Ottocento alla Belle Époque, c’era anche un pezzetto d’Umbria.
La fama del tesoro gastronomico nascosto nei boschi della piccola regione d’Italia cominciò a crescere quando gli imprenditori francesi che si erano trasferiti a Spoleto iniziarono anche a inscatolare i profumati funghi ipogei in speciali contenitori a tenuta stagna: le miracolose “boites” grazie alle quali si evitava “l’infradiciamento” causato dai lunghi viaggi lungo strade che non erano certo famose per la loro comodità.
Nel 1873, secondo il Giornale Agrario Italiano, solo al mercato di Spoleto furono venduti 30mila kg di tartufi con una rendita di mezzo milione di lire. Ma il tartufo nero pregiato dell’Umbria continuava ad essere spacciato come un prodotto transalpino “Doc” oppure
veniva considerato come un tartufo buono ma non certo eccellente come quello d’Oltralpe.
Dalla pubblicazione della Camera di Commercio di Perugia “Black & White -Di quale tartufo sei? STORIE, LEGGENDE, CURIOSITÀ“