Matteo dall’Isola nella sua opera Trasimenide del 1537 fornisce alcune preziose informazioni su come cucinare e conservare le specie ittiche del Trasimeno.
I pesci venivano cotti nell’acqua in una pentola di terracotta con foglie di basilico e prezzemolo che davano sapore e grazia all’intingolo e al pesce cotto.
Alle carni lessate si aggiungeva pane bagnato nel brodo e un composto di aceto, noci, mandorle, foglie di alloro, pepe e garofano.
Si procedeva talvolta ad arrostire i pesci sulle braci ardenti.
Solo i più grandi venivano subito squamati e tagliati in pezzi.
In genere, dopo un breve contatto con le braci, le donne provvedevano a spogliarli delle squame e a restituirli al fuoco dopo averli cosparsi di sale. Questa pratica è rimasta in uso almeno fino al secolo scorso. Le mogli dei pescatori la praticavano infilando vivo un luccio di medie dimensioni con uno spiedo che attraversava il pesce dalla testa alla coda. Dopo il primo contatto con le braci, le
donne staccavano facilmente con le mani la pelle del pesce.
Bastava poi incidere la pancia del luccio per veder uscire tutte le interiora. Gli stessi pescatori, quando si recavano a pescare di notte con le reti (a bottà), lo preparavano così, dando fuoco ad un mucchietto di canne lacustri, e se ne cibavano staccandone dei pezzetti cotti con le mani.
Era consueto nel primo Cinquecento, come anche oggi, friggere i pesci nell’olio in una padella apposita dopo averli infarinati. Il pescato veniva in parte anche salato e affumicato. Soprattutto le scardole subivano questo trattamento dopo essere state squamate.
(E. Gambini)
Tratto dalla pubblicazione della Camera di Commercio di Perugia “L’Umbria del Trasimeno“