Il tartufo tra storia e leggenda…La scienza di un fungo bizzarro

Nel secolo dei Lumi la scienza illuminò anche le origini occulte del nobile e misterioso fungo. Claude Joseph Geoffroy (1685-1752), botanico francese membro dell’Accademia Reale delle Scienze, nel 1711 pubblicò Observations sur la structure et l’usage des principales partie des fleurs. Di fatto, ventilò la presenza delle spore, mettendo in evidenza la presenza di “germi” nella polpa del tartufo. Era convinto che i tartufi avessero i semi e quindi avrebbero potuto avere dei fiori. 

Ma fu Pier Antonio Micheli (1679-1737), il naturalista toscano considerato il fondatore della micologia, a dimostrare in modo scientifico come si riproducono i funghi. Era convinto che non potessero esistere piante senza semi. Notò la presenza di una polvere
che si manifestava quando il fungo giungeva alla piena maturazione. Convinto che si trattasse di una sostanza seminale, tentò di farla germogliare fino a quando ebbe la certezza di essere di fronte a degli organi riproduttori: aveva scoperto le spore. Esaminandole, in base alle forme ed ai colori, riuscì a classificare circa un centinaio di funghi, tra cui erano compresi i tartufi. A Micheli va anche il merito di aver distinto due specie di tartufo: il Tuber Melanosporum e il Tuber Aestivum.
Il medico piemontese Vittorio Pico che nella sua Meletemata inauguralia de fungorum generatione (1778) coniò il nome della specie di tartufo considerata la più preziosa in assoluto, il bianco, qualificandolo Magnatum, dal latino magnatus (ricco signore, magnate) per sottolinearne il pregio che ne rende esclusivo l’appannaggio.
La definizione del genere tuberacea non poteva certo mancare nel Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri di Denis Diderot (1713-1784), l’illuminista francese promotore, editore e direttore del compendio universale del sapere del tempo.
L’Encyclopédie riportò una definizione che fece epoca: “I tartufi sono composti d’una sostanza carnosa, fungosa di forma irregolare; crescono sottoterra, talvolta separati, talvolta riuniti; se vi sono animali che d’animali non han quasi l’aspetto, non è a stupire
che v’abbiano piante che di piante non abbian l’apparenza”.
Il piemontese Giovanni Bernardo Vigo raccontò in versi latini le tecniche settecentesche per conservare il tartufo: “Scopertolo si badi ad estrarlo senza ferirlo, altrimenti la sbucciatura si trasformerà in cancrena, anche se “coperta di molle cera”. Lavato a “fresca fonte” lo si collochi in” freddiccia cella”, ricoperto di sabbia minuta, o spalmato di quella cera molle, o avvolto in pelle sottile”.

Dalla pubblicazione della Camera di Commercio di Perugia “Black & White – Di quale tartufo sei? STORIE, LEGGENDE, CURIOSITÀ

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