È autentica la passione di Caterina De’ Medici (1519-1589) per la buona tavola e per i tartufi. Il suo matrimonio con il futuro re di Francia Enrico II spostò il centro dell’attività gastronomica del Rinascimento da Firenze a Parigi. La nuova regina portò con sé un nutrito stuolo di cucinieri, pasticceri e altri professionisti che trovarono nell’ambiente gastronomico d’oltralpe il terreno più fertile per introdurre quei canoni che daranno vita, di fatto, all’alta cucina francese del Seicento e del Settecento. Oltre ad innovazioni stilistiche e tecniche, come la separazione delle portate salate da quelle dolci e l’introduzione all’uso della forchetta, a Caterina si deve l’ingresso del tartufo nella tavola dei grandi di Francia, che consacreranno il nobile fungo ipogeo come indiscusso protagonista delle riunioni conviviali alle corti del Re Sole, di Luigi XV e di Luigi XVI.
Il bolognese Baldassarre Pisanelli, nell’opera Della natura de’ cibi, et del bere (1583) suggerisce di mangiarli cotti, con molto aglio, pepe e limone o in alternativa di bollirli nel brodo grasso ma aromatizzato con cannella. Nello stesso periodo, si rilevano frequenti
riferimenti al tartufo nella letteratura regionale italiana. Il medico ed umanista senese Pier Andrea Mattioli (1501-1578) ne stilò una sbrigativa analisi:”I tartufi sono radici rotonde senza fusto, senza foglie e biondeggianti”. Giacomo Castelvetro (1546-1616), precettore e commerciante librario modenese, emigrato nel Kent per sfuggire alla condanna dell’inquisizione romana, rievocò nostalgicamente la gastronomia rusticana e raffinata della patria natale nel Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano. Parlò anche della capacità dei maiali di scovarli e del valore commerciale che il tartufo aveva ormai acquisito. Dal punto di vista scientifico, nel XVI secolo fu invece Andrea Cesalpino (ca. 1525-1603), anatomista e botanico toscano, che imprime una svolta determinante agli studi sull’ordinamento dell’insolito vegetale. Mise un punto fermo e stabilì quello che ora sappiamo con certezza: il tartufo è un fungo.
In ambito gastronomico, dopo lo sfarzo delle corti e delle tavole rinascimentali, uno stuolo di celebri chef transalpini consacrò il tartufo a icona della raffinatezza culinaria.
Con Le Cuisinier François, testo capostipite della cucina francese classica, pubblicato nel 1651 dal cuoco professionista François Pierre de la Varenne, il tartufo fece la sua entrata trionfale nell’universo gastronomico delle salse. Fu La Varenne a dare il nome
alla “sauce béchamel” di cui, accanto alla tradizionale preparazione con legatura di farina, propose anche la versione al tartufo, che dev’essere precedentemente pestato nel mortaio. E naturalmente, anche François Vatel (1631-1671), rinomato chef al servizio
del Gran Condé nel castello di Chantilly e inventore dell’omonima crema, si servì del gusto inconfondibile del tartufo per conquistare la gola degli ospiti del principe. Per non parlare di François Massialot (1660-1733), “officier de bouche” di illustri esponenti della nobiltà francese, che presentò i frutti ipogei come raffinate gemme gastronomiche, incastonate nel ventre di succulente pernici, capponi o pollastre.
Dalla pibblicazione della Camera di Commercio di Perugia “Black & White – Di quale tartufo sei? STORIE, LEGGENDE, CURIOSITÀ“