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PROVERBI….ALL’OLIO D’OLIVA

 

Una pianta e un frutto che per il ruolo prezioso che da sempre hanno rivestito nella vita dell’uomo e nella tradizione economica, specie locale, hanno ispirato locuzioni e modi di dire, vero e proprio patrimonio espressivo e lessicale della nostra terra.
Eccone un assaggio tra detti popolari, doti taumaturgiche quasi al confine con il magico, precetti quasi imperativi dell’attività di olivicoltura che diventano metafora di vita, a testimonianza di come l’olivo ed il suo pregiato prodotto costituiscano un bene di grande valore.

L’olio e la verità tornano a galla.
(La verità emerge sempre, come la caratteristica dell’olio di non mischiarsi con l’acqua quando viene aggiunta).

Dolori, olio dentro e olio fuori.
(In caso di affezioni interne e esterne l’olio ha proprietà salutari).

Ungi e frega, ogni male si dilegua.
(Antico proverbio umbro: ungi il corpo e massaggia e ogni dolore svanisce).

Mercante di vino, mercante poverino; mercante d’olio, mercante d’oro.
(L’olio, da sempre bene “prezioso”, anticamente rendeva più del vino).

Olio, ferro e sale mercanzia reale.
(L’olio come merce preziosa sin da epoche lontane).

Chi vuol tutte l’ulive non ha tutto l’olio.
(La pratica di lasciare a lungo le olive sulla pianta fino a che maturino tutte, comporta che se ne perda una quantità).

Olio di lucerna ogni mal governa.
(L’olio che nella lampada si trasforma in luce, sostanza immateriale, deve necessariamente possedere qualità prodigiose, ben superiori alle nostre percezioni umane” – Cesare Marchi “ Quando eravamo brava gente”).

Olio, aceto pepe e sale, sarebbe buono uno stivale.
(Persino cose non commestibili potrebbero diventare gustose al palato se condite con ingredienti come l’olio).

Chi vuol fare invidia al suo vicino pianti l’olivo grosso e il fico piccolino.

L’olivo quanto più ciondola, più unge. (la pianta tanto carica da avere rami penduli rende, in olio, più delle altre).

L’ulivo benedetto vuol trovar pulito e netto (la tradizione, oggi poco seguita, voleva che in occasione della domenica delle palme, quando si benedivano le case, queste dovevano essere ben pulite).

La prima oliva è oro, la seconda argento, la terza non val niente.

Agli ulivi, un pazzo sopra e un savio sotto.
(Nella raccolta delle olive occorre una persona vigorosa che squota i rami perché le olive cadano e una persona prudente che ai piedi dell’albero le cerchi e le raccolga. O ancora in cima chi poti senza riguardi, in basso chi concimi con misura).

Vigna piantata da me, gelso da mio padre, olivo da mio nonno.
(Riconosce la longevità dell’olivo rispetto alle altre piante comunemente coltivate dai contadini, tale da accompagnare l’avvicendarsi delle generazioni).

Gioventù in olio, vecchiezza in duolo.

L’ulivu benedetto arde verde e arde seccu.
(Antico proverbio umbro: l’olivo arde nel focolare sia che sia verde, sia che sia secco).

Se di febbraio corrono i viottoli, empi di vino e olio tutti i ciottoli.
(Se febbraio è piovoso, ci saranno grandi raccolti di vino e olio, tanto da richiedere che si riempiano anche i più piccoli contenitori).

Per l’assunta l’oliva è unta.
(Per il quindici di agosto l’oliva ha già preso corpo e comincia a formare al suo interno l’olio).

Le olive cominciano a fare olio quando hanno avuto la novena di Natale.
(Le olive sono al punto giusto di raccolta quando si celebra la funzione della Novena di Natale, ovvero i nove giorni che precedono il natale dal 15 al 23 dicembre).

Fammi povero di legno che ti farò ricco d’olio.
(è la stessa pianta d’ulivo a ricordare che una potatura decisa assicura un generoso raccolto).

Trama d’aprile, riempi il barile; trama di maggio, giusto un assaggio; trama di giugno, ungi solo il grugno.
(Il momento di fioritura è indice del presumibile quantitativo della futura raccolta).

Se piove d’agosto, piove olio, miele e mosto.
(abbondanti piogge in agosto, assicurano, tra l’altro, copiosi raccolti di olive)

Per San Silvestro ogni oliva nel canestro.
(Tradizionalmente e convenzionalmente il 31 dicembre sancisce la chiusura del periodo di raccolta delle olive)

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CIALDE DI MARSCIANO: STORIA DI ANTICHE DELIZIE

 

Il periodo di carnevale si arricchisce di un insolito dolce, di antiche e suggestive origini, che è possibile gustare nell’unica zona in cui viene prodotto, ancora secondo l’antica ricetta: Marsciano.

La tradizione locale racconta infatti che intorno al 1600, con l’istituzione della Compagnia del Purgatorio o Signoria del Carnevale, si diffuse l’usanza di raccogliere offerte in denaro e in generi alimentari: queste erano destinate a reperire i fondi per celebrare le messe in suffragio delle anime del Purgatorio, alle quali veniva ricondotto lo scampato assedio dei fiorentini su Marsciano, allora sotto lo Stato della Chiesa.
Una parte di quanto raccolto veniva destinata a fare le cialde da distribuire alla popolazione durante il Carnevale.
All’epoca venivano usati dei ferri realizzati a mano: due piastre di ferro, personalizzate, da ciascuna famiglia, con propri stemmi araldici, fregi, motti ed effigi.
Ancora oggi esiste una comunità locale chiamata dei Ferri da Cialda di Marsciano, che riunisce gli abili artigiani che forgiano secondo gli antichi canoni e segreti gli strumenti per la cottura di questo dolce antico, così da trasmettere alle nuove generazioni questo prezioso saper fare.

La ricetta originale dei dolci è giunta fino ai giorni nostri: consultala sulla sezione ricette e prova a cimentarti anche tu!

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MOSTACCIOLI: UN DONO PER SAN FRANCESCO

Secondo la tradizione i mostaccioli erano il dolce preferito di San Francesco.

Si racconta che Jacopa de’ Settesoli, nobildonna romana, nata nella Città Eterna nel 1190 in seno ad una illustre famiglia residente a Trastevere. Si era sposata con un ricco signore di Roma, tale Graziano Frangipane e con lui aveva avuto due figli. Rimasta vedova presto, a soli 27 anni, era stata costretta a diventare l’amministratrice delle molte proprietà del marito fra cui la cittadina di Marino. Due anni dopo, nel 1219, san Francesco arrivò a Roma per predicare e Donna Jacopa lo conobbe, diventando da quel momento una sua fedele seguace e una sua ottima guida per le vie dell’Urbe. Da allora, Jacopa de’ Settesoli si convertì nella più valida collaboratrice del neonato movimento francescano nella città dei Papi e anche delle Clarisse. Fu lei ad ottenere dai Benedettini di San Cosimato in Trastevere la cessione dell’ospedale di San Biagio, che divenne il primo luogo romano dei Minori. Nel 1231, immediatamente dopo la canonizzazione di Francesco e per iniziativa della stessa Jacopa de’ Settesoli, l’ospedale fu trasformato nel convento di San Francesco a Ripa con annesa chiesa ristrutturata poi nel Seicento: all’interno si trova la cappella di San Francesco che ricalca grossomodo la cella dove dimorò il Santo mentre era a Roma, e che contiene una pietra che il Poverello usava come cuscino. Jacopa de’ Settesoli era talmente attiva e risoluta, da indurre Francesco a chiamarla affettuosamente Frata Jacopa. La loro amicizia durò fino alla morte del santo, avvenuta la notte fra il 3 e il 4 ottobre del 1226.
Fu proprio durante quel suo primo soggiorno romano che Francesco assaggiò quello che sarebbe diventato il suo perenne “peccato di gola”: certi biscotti “boni e profumosi”, diceva il santo, che la stessa Jacopa de’Settesoli preparava e che gli offrì un giorno a casa sua. Tipici del periodo della vendemmia, erano fatti con la pasta di pane, semi di anice, zucchero, mandorle e mosto d’uva e detti forse per quest’ultimo ingrediente “mostaccioli”: ma già nella Roma antica si conoscevano dei biscotti simili con il nome di “mortarioli”, a base di zucchero e mandorle pestate nel mortaio… In ogni modo, sia quale sia l’origine del nome, quei mostaccioli di Frata Jacopa de’ Settesoli piacevano talmente tanto a san Francesco da desiderarli anche in punto di morte! Quando Francesco sentì avvicinarsi la sua ultima ora, volle dettare ad un frate una lettera alla sua cara amica Frata Jacopa, per informarla della sua morte imminente e chiedendole di raggiungerlo alla Porziuncola, portandogli una veste per la sepoltura e candele per il funerale e…quei dolci:

 

“A donna Jacopa, serva dell’Altissimo, frate Francesco, poverello di Cristo, augura salute nel Signore e comunione nello Spirito Santo. Sappi, carissima, che il Signore benedetto mi ha fatto la grazia di rivelarmi che è ormai prossima la fine della mia vita. Perciò, se vuoi trovarmi ancora vivo, appena ricevuta questa lettera, affrettati a venire a Santa Maria degli Angeli. Poiché se giungerai più tardi di sabato, non mi potrai vedere vivo. E porta con te un panno di colore cenerino per avvolgere il mio corpo e i ceri per la sepoltura. Ti prego anche di portarmi quei dolci, che tu eri solita darmi quando mi trovavo malato a Roma”.

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BLACK/WHITE Umbria Terra di Tartufo

Il Tartufo è un dono di natura, per eccellenza, e la terra umbra ne custodisce varietà dalle caratteristiche straordinarie: il nero pregiato, il bianco, il bianchetto, lo scorsone estivo. Tuberi ineffabili dalla crescita spontanea e inesplicabile, arcano mistero della natura, che si manifesta solo in alcuni particolari territori e non in altri, “un qualcosa che sta fra quelle cose che nascono ma che non si possono seminare” secondo la definizione di Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia.

Ecco allora una agile guida al territorio e alle città in cui sono presenti manifestazioni riconosciute sul tartufo, di cui si mettono in luce le bellezze storico culturali, anche attraverso un ricco repertorio di immagini fotografiche, le caratteristiche del tartufo in essi presente, dati non solo sulle relative manifestazioni, ma anche sugli altri eventi di rilievo. E ciò per consentire al visitatore di conoscere non solo la nostra tradizione enogastronomica, ma anche la bellezza dei luoghi, le particolarità e curiosità ad essi legate.

Cascia, Citerna, Città di Castello, Gubbio, Norcia, Pietralunga, Scheggino, Valtopina … nella Guida si può trovare il percorso giusto per approdare al proprio tartufo, a quello che più di altri soddisfa i propri sensi, da scegliere tra le quattro grandi specie che crescono in Umbria: il nero di pregio, il bianco, il bianchetto, lo scorzone estivo. Specie reperibili tutto l’anno, magari nel corso delle manifestazioni inserite in un calendario anch’esso annuale, da febbraio con Nero Norcia alla fine di novembre con la Mostra Mercato Nazionale del Tartufo e dei Prodotti Tipici a Valtopina.

La guida è scaricabile direttamente da questa pagina, ma è anche reperibile gratuitamente in formato cartaceo tascabile presso Promocamera, Azienda Speciale della Camera di Commercio di Perugia BLACK WHITE 1

 

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IL FORNAIO

Inizialmente il fornaio, che poteva esercitare il suo mestiere dopo un lungo tirocinio come garzone, cuoceva il pane che le donne preparavano in casa: veniva pagato mensilmente, annotando su una tavola di legno, una sorta di “libretto delle spese” ogni acquisto che realizzava. Il lavoro del fornaio era sottoposto a rigide regole: doveva prestare giuramento davanti alle autorità di non barare sulla qualità e quantità del pane. Inoltre, pena un risarcimento in denaro, era tenuto a produrre e a consegnare, all’interno di una gerla, il pane, che portava inciso il nome del “committente”, ben cotto: se il fornaio non cuoceva bene il pane, oltre a pagare l’ammenda doveva pure rifare l‘infornata. Nacque in questa epoca la superstizione che il pane posato in tavola capovolto portasse sfortuna: questa credenza popolare traeva origine dal modo in cui i fornai consegnavano in segno di disprezzo il “pane del boia”, preparato senza compenso per doveri di legge. Dopo il 1200 i mugnai e i fornai appartenevano alle rispettive corporazioni di mestieri.

mugnaio

IL MUGNAIO

 

L’utilizzo del mulino per la macinazione dei cereali, è testimoniato fin dall’antico Egitto. Come pure in Grecia e a Roma, i mulini erano azionati principalmente da animali, ma anche da schiavi, cittadini poveri, delinquenti condannati. Un documento risalente al I secolo a.C. testimonia l’uso del mulino ad acqua, particolarmente diffuso nell’antica Roma, che troverà la sua massima espansione nel medioevo. Solo nel XII secolo la tecnica di macinazione con il mulino a vento, originaria della Persia, venne introdotta in Europa. Leggi severe regolavano l’uso del mulino: il grano veniva pesato prima della macinazione e, una volta trasformato in farina, si procedeva a pesarne i sacchi. Al proprietari o del grano veniva restituita la corrispondente quantità di farina, decurtata del quantitativo trattenuto dal mugnaio come prezzo del suo lavoro. Nel medioevo il prezzo della macinazione prendeva il nome di “molitura” o “nolo”: corrispondeva al 2% in peso del macinato. La molitura poteva essere pagata in natura oppure in moneta. In ogni caso, il mugnaio era considerato un individuo privilegiato: nei periodi in cui la popolazione soffriva la fame chi si occupava di farina, anche solo con i residui della lavorazione, aveva assicurato il “pane” per la propria famiglia.

castagne

CASTAGNE…cibo portafortuna

Sono considerate un cibo portafortuna a ragione del loro aspetto doppiamente corazzato, che assicura una assoluta protezione del seme interno (ciò che noi mangiamo!!) da “attacchi esterni”: allo scudo fornito del guscio coriaceo del seme si unisce la protezione fornita dalle spine del riccio, il vero e proprio frutto dell’albero.
La tradizione contadina tramanda inoltre come la pianta del castagno fosse considerata l’albero del pane: era infatti una fonte di materie prime e di una certa autosufficienza alimentare ed economica.

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Storia del Torcolo di S.Costanzo

Dolce tipico della città di Perugia, la tradizione vuole che venga preparato il 29 gennaio in occasione della Festa di San Costanzo, primo vescovo e patrono della Città, insieme a San Lorenzo e Sant’Ercolano. È un torcolo di pasta di pane lievitata, dal delicato gusto di anice arricchito da canditi, uvetta e pinoli.
Alla forma del dolce la tradizione associa diverse origini, riconducibili in ogni caso all’evento del martirio del Santo, avvenuta per decapitazione nel 170 circa (verosimilmente proprio il 29 gennaio) al tempo dell’imperatore Marco Aurelio, durante le persecuzioni dei cristiani ad opera dell’Impero Romano.
Per alcuni, quindi, il buco rappresenterebbe il collo decapitato di Costanzo, mentre la forma a ciambella simboleggerebbe la corona tempestata di gemme preziose (i canditi!) che si sarebbe sfilata al momento della decapitazione.
Per altri, invece, il dolce raffigurerebbe la ghirlanda floreale che, dopo la decapitazione di Costanzo, sarebbe stata pietosamente posta sul collo del Santo per nascondere i segni del martirio: i canditi e l’uvetta sarebbero la rappresentazione dei petali dei fiori della ghirlanda.
 Sull’origine dei 5 tagli praticati diagonalmente sulla sommità del dolce, la tradizione popolare concorda nell’individuarvi le cinque porte corrispondenti ai cinque rioni del centro storico di Perugia (Porta Sole, Porta San Pietro, Porta Susanna, Porta Eburnea, Porta Sant.Angelo).

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Torciglione…quando un serpente sa essere…dolce!

Dolce tipico del Natale diffuso in particolare nel perugino e nella zona del Lago Trasimeno, viene preparato con impasto di mandorle dolci e amare tritate grossolanamente, zucchero, pinoli, e spicca per la caratteristica forma sinuosa di un serpente, completo di squame, occhi e lingua biforcuta.

L’origine dell’aspetto sembrerebbe ricondursi ai riti pagani dove il serpente, simbolo di vita e di forza, veniva venerato come vera e propria divinità, per la sua caratteristica di mutare pelle, rinnovando continuamente il suo aspetto.

Nella zona del Trasimeno, uno dei territori di elezione del dolce, la forma a spirale verrebbe invece ricondotta all’anguilla, pesce tradizionalmente presente sulle tavole natalizie.