“Il fascino del tartufo è nel suo mistero. È figlio della terra e del buio. Lontano da tutto ciò che vive e si ciba di sole. Non ha rami, né foglie, né tronco. Cresce nell’oscurità del terreno, aggrappato alla vita grazie alle radici degli alberi. Aspetta l’acqua. Poi cede alle piante elementi minerali per avere in cambio glucidi. Per ubbidire alla prima regola del mondo dei viventi, quella di conservare e propagare la specie, ha solo un’arma: il suo profumo. Un richiamo che seduce. Irresistibile. Qualcosa di ancestrale che si propaga nel terreno, affiora in superficie e imprigiona l’olfatto. Poi la gioia arriva in tavola. La lunga e affascinante storia del tartufo è quindi mescolata, in modo inevitabile, ad un altro profumo: quello del mito. L’Umbria è terra di tartufi da trenta secoli. Gli uomini che sopravvissero al diluvio, che i Greci chiamavano “ombrikoi”, già conoscevano il meraviglioso frutto della terra. Gli antichi Umbri chiamavano “tartùfro” quel “sasso profumato”. E ne introdussero l’uso e la conoscenza in tutta la penisola. È incredibile pensare che i Romani, che ne erano ghiottissimi, cercassero soprattutto quello meno pregiato, che arrivava dalla lontana Libia e come ricordava Plinio “cresce isolato e circondato di sola terra, la secca, sabbiosa e fruttifera terra della lodatissima Africa” e non si accorgessero che nei boschi dell’Umbria, cantata dal sabino Varrone, a due passi dalla Città Eterna, c’erano giacimenti inesplorati di tartufi straordinari. Giovenale li amava a tal punto da affermare che “era preferibile che mancasse il grano piuttosto che i tartufi”. Fu uno dei pochi a gustare il tubero nero delle zone centrali dell’Italia attuale, che era invece sconosciuto per quasi tutti i suoi concittadini.”
Un’accurata ricerca sulle storie, le leggende e le curiosità legate al pregiato tubero.
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