lord byon

Corrieri sulla Somma per acquistare i “gioielli” di Spoleto

Di preziosi “tartufi da Roma”, volendo indicare i profumati e costosi funghi ipogei provenienti dal territorio dell’allora Stato della Chiesa, parla un personaggio della Dama prudente, opera teatrale di Carlo Goldoni.
Il grande commediografo conobbe ed apprezzò i tartufi grazie alla squisita ospitalità del suo amico spoletino, il barone Antonio Ancajani, che allora abitava l’omonimo, grande palazzo dell’attuale Piazza della Libertà. Al nobile umbro, qualche anno dopo, Goldoni
dedicò Gl’innamorati, una delle sue commedie più belle.
Ancajani nel 1762 scrisse un libro sul Commercio attivo e passivo della Città di Spoleto grazie al quale sappiamo che già in quegli anni i corrieri della Repubblica di Venezia, dove la domanda di consumo era fortissima, arrivavano fino alla montagna della Somma per comprare i tartufi spoletini. E i negozianti di Norcia li portavano di continuo a Firenze e a Pesaro, dove venivano venduti a beneficio delle cucine più aristocratiche.
Il barone Ancajani parla dei tartufi spoletini come dei “più odorosi e più gustosi degli altri paesi” e ne loda lo smercio ma non può fare a meno di aggiungere una nota preoccupata: “Quantunque se ne infradiciano molto per il lungo viaggio…”.
L’aristocratico e raffinato poeta romantico inglese George Byron, che teneva sempre un tartufo sulla sua scrivania, convinto che il profumo risvegliasse l’ispirazione, dedicò all’Umbria un centinaio di memorabili versi nei quali cantò lo “specchio argenteo” del Trasimeno e la cascata delle Marmore che, come disse, “supera ogni cosa”. Alla stazione di posta di Pissignano nel 1817 con ogni probabilità assaggiò i tartufi del luogo insieme a “qualcuna delle famose trote del fiume Clitunno, il più grazioso fiumicello di tutta
la poesia” che descrisse con tre memorabili strofe come una refrigerante “pausa nel disgusto della vita”.
La missione dei tartufi è la stessa: regalare attimi di vera felicità. Effimera come un prodotto che vive poco, si decompone in fretta e svanisce presto, insieme al suo profumo.
In pieno Romanticismo mercanti e studiosi, al pari dei poeti, lottavano per prolungare quella passeggera estasi della gola.
La strada obbligata, allora come ora, era quella di averne di più a disposizione. Provare a seminarli per raccoglierli in grandi quantità.
Il primo in Umbria e tra i primi in Italia a sperimentare la coltivazione dei tartufi fu Pietro Fontana, che nacque e morì a Spoleto (1775-1854) ma visse a lungo a Roma e insegnò anche Agraria all’Università di Venezia. Aveva una cultura enciclopedica e una impressionante rete di relazioni nell’alta società del tempo. Nel 1819, quando l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe passò nella sua città, ebbe un lungo colloquio con il primo ministro Metternich, che accompagnava il sovrano, al quale illustrò il suo progetto di una via che, attraverso l’Umbria, collegasse l’Adriatico al Tirreno.
Fontana impiantò una coltivazione di tartufi nella zona di S. Angelo Izzano. Sotterrava i tartufi più piccoli, senza sbriciolarli, vicino agli elci ed alle querce. Aveva già intuito il rapporto tra la crescita dei tartufi e le piante vicino alle quali i tuberi si sviluppano. Non
ottenne grandi risultati ma “il nuovo esperimento di seminagione” continuò a lungo.
La sorte volle che nello stesso periodo, intorno al 1810, un contadino francese che si chiamava Joseph Talon, scoprisse per caso che seminando le ghiande raccolte sotto ad una quercia vicino alla quale erano stati trovati i tartufi, si potesse dare vita a nuove
tartufaie. In pochi anni, accanto alle querce piantate accanto al casolare del contadino provenzale, cominciarono a nascere tartufi di grandi dimensioni.
Fontana non ebbe risultati così eclatanti ma si consolò con un altro importante esperimento: quello che gli permise di ottenere un liquore “che avesse e conservasse lungamente l’odore del tartufo”.

Dalla pubblicazione della Camera di Commercio di Perugia “Black & White – Di quale tartufo sei? STORIE, LEGGENDE, CURIOSITÀ

ceccarelli

Il primo libro sui tartufi fu scritto dal più grande falsario del Cinquecento

Ma fu un altro umbro, il bevenate Alfonso Ceccarelli, a scrivere il primo, vero libro sul tartufo che si conosca. Incredibile e pirotecnico personaggio fu, secondo Pierre Toubert, “il più inventivo falsario del Rinascimento”. La Roma cinquecentesca, dove lavorò come
medico personale della sorella di papa Giulio III, fu il gran teatro delle sue gesta.
Accusato di aver manomesso testamenti e genealogie nobiliari, documenti dell’imperatore e scritti del pontefice, fu a lungo torturato.
Si difese abilmente sostenendo che così facevan tutti e sciorinò i nomi di illustri storici dell’epoca. Non bastò: piegato dal dolore,
confessò e fu decapitato a Castel Sant’Angelo.
Regalava antenati illustri a chi non li aveva e, come accadeva all’epoca, si dilettava anche di astrologia, fabbricando oroscopi su misura per molte dame della nobiltà romana e personaggi della curia, compresi alcuni eminenti cardinali.
Ma il poliedrico Alfonso Ceccarelli, che pagò con la vita le sue malefatte, era prima di tutto un medico che esercitò con riconosciuta capacità la professione in molte località dell’Umbria prima di emigrare altrove e lasciare a casa moglie e prole. Confessava di
avere “un cervellaccio che cape molte cose” e infatti nutriva una grande curiosità per svariate discipline, dalle scienze naturali alla botanica, senza trascurare la numismatica e la storia.
Scrisse il libro sui tartufi, Opusculum de tuberibus, inedito trattato al mondo di idnologia, quando aveva 32 anni. Fu la sua prima opera. Infarcita di citazioni, fantasiose pezze d’appoggio e partigiana nei gusti, come quando assicura che è Bevagna uno dei luoghi
migliori per il tartufo in Umbria.
Ma il piccolo volume, pubblicato nel 1564 e suddiviso in 19 capitoli, è il primo libro che affronta l’argomento dei tartufi in modo scientifico, dal nome all’aspetto, dalla nascita alla riproduzione, dalla semina agli aneddoti, fino agli abbinamenti alimentari. Riassume le opinioni di naturalisti greci e latini. Soprattutto, in un latino elegante, Alfonso disquisisce a lungo sulla vera natura dei tartufi “se radici, frutti o piante intere”. E spiega, grazie ad una meticolosa rassegna bibliografica, come gli antichi già conoscessero le proprietà
del meraviglioso frutto della terra.
Insiste anche sul fatto che possano essere seminati, con una tecnica che somiglia a quella dei nostri giorni, cospargendo il suolo con terra umida mista ad altri tartufi finemente triturati. Ne decanta l’aroma, una “quinta essenza” che provoca nell’uomo una specie di estasi.
Il medico di Bevagna racconta di un cercatore di Cerreto capace di trovare tartufi a vista e di un maiale che, nella stessa zona, “trovava con muso i luoghi dove nascevano i tartufi”. Alfonso parla, in anticipo sui tempi, pure del rapporto di un certo tipo di mosche
con il tartufo e della loro conseguente azione diserbante che in epoca recente risulterà essere dovuta alla azione del micelio.
E i tartufi più buoni? Va da sé che per Ceccarelli, “i più lodati tra tutti nascono in Umbria in più luoghi, ma quelli che vengono estratti nell’agro spoletino sono i più raffinati, profumati e ottimi”.
Concordava con lui anche Luigi Ferdinando Marsili, un diplomatico bolognese, viaggiatore e scienziato, che a metà del Seicento, studiò il tartufo nero dell’Umbria e lo descrisse interrogando chi lo raccoglieva, in molti paesi della regione. I suoi manoscritti inediti,
con quasi cinquanta disegni a colori, sono ora conservati nella biblioteca universitaria di Bologna. 

Tratto dalla pubblicazione della Camera di Commercio di Perugia “Black & White-Di quale tartufo sei? STORIE, LEGGENDE, CURIOSITÀ

raccolta tartufo

Un dilemma per giuristi: di chi sono i tartufi?

Altro che diavolo. Il tartufo anche nell’Età di Mezzo era il “cibo degli dei” di cui già parlava Nerone. Anche se all’epoca lo apprezzavano soprattutto le classi popolari. Allora a tavola e nella società, era comunque importante che ciascuno rimanesse al suo posto. Le
gerarchie sociali corrispondevano a quelle naturali. Gli alimenti più nobili e quindi adatti alle tavole dei gentiluomini, erano quelli che si potevano trovare in alto, come gli uccelli o i frutti degli alberi. Le risorse del sottosuolo erano giudicate più vili e quindi destinate
alla povera gente.
Ma le abitudini cambiarono in fretta, come ricorda Francesco Francolini, eminente studioso di agraria, che agli inizi del Novecento fece nascere la prima cattedra di Agricoltura a Spoleto. Scrisse con un certo orgoglio: “Antichissima fama godono i nostri tartufi. Già
fin dagli ultimi anni del Quattrocento”.
Forse per questo, già allora il loro valore cominciò ad aumentare. Una ricchezza della natura, a portata di mano, che in Umbria è stata sempre ben chiara a tutte le classi sociali.
Tanto da alimentare polemiche continue e regolamenti stringenti sulle regole della raccolta.
Un quesito fondamentale ha diviso da sempre le assemblee comunali, i cittadini e i tanti “cacciatori”: i tartufi sono di chi li trova o dei proprietari dei terreni dove nascono?
Dipende. Il tartufo bianco pregiato, in Umbria come altrove, storicamente è di chi lo scova per primo. Forse perché le tartufaie sono invisibili e spesso sconosciute anche ai proprietari.

Per il tartufo nero il diritto di cava, per secoli, è stato invece delle comunità che abitano il territorio. Con mille distinzioni. Al tempo del ducato longobardo di Spoleto, ad esempio, le terre private non esistevano e la raccolta era libera. Poi le cose cambiarono.
La professione del “tratufano”, il cercatore dell’oro dell’Umbria, nacque qualche secolo dopo. La prima traccia è in un documento contabile dell’ordinamento finanziario di Spoleto, la Tabula exitus, expanse et introitus del 22 agosto del 1400, nel quale venivano
annotate le merci che entravano ed uscivano dalla città. Già allora i tartufi erano preziosi: per smerciarli fuori dal territorio bisognava pagare dazio:”un denaro per libra”.
Gli abitanti dei paesi di montagna cominciarono a proteggere in vari modi il prezioso prodotto della loro terra. Innanzitutto vietandone la raccolta a chi veniva da fuori. Il paese di Orsano, per esempio, proibiva severamente la cava dei tartufi a chi non era del posto “sotto pena de bolognini a qualunque contraffarà et della perdita de quanti tartufani li saranno trovati”.
Lo Statuto di Cerreto di Spoleto non solo vietava agli “stranieri” la raccolta dei tartufi ma anche la caccia e la pesca. Così come quello di Vallo di Nera. A Scheggino i tartufi appartenevano per legge ai proprietari dei terreni dove crescevano. Ma i fortunati abitanti
del paese, che avevano il senso degli affari, cominciarono presto ad affittare le tartufaie con innegabili benefici.
La raccolta era vietata “ai forensis” anche a Ponte, piccola frazione di Cerreto, come attesta lo Statuto del 1572.

Dalla pubblicazione della Camera di Commercio di Perugia “Black & White – Di quale tartufo sei? STORIE, LEGGENDE, CURIOSITÀ” 

Scheggino

Tartufi regalati per non pagare le tasse e farsi visitare dai medici

Nel XVI secolo il valore dei tartufi divenne un bene comune, da condividere. In quasi tutte le zone vocate dell’Umbria, le tartufaie venivano affittate al miglior offerente ed i ricavi venivano poi reinvestiti in servizi collettivi.
Così il tartufo assunse anche un ruolo sociale: divenne un segno tangibile dell’identità stessa del territorio. Un cibo prezioso, capace di riunire la gente, non solo a tavola.
In molti casi gli abitanti di Norcia e dei territori circostanti cedettero il diritto di escavazione alla Chiesa, in cambio della esenzione completa delle tasse oppure per assicurarsi dei servizi religiosi.
La salute, come ricordano i proverbi, è la cosa più importante. E grazie ai tartufi gli abitanti di Sellano per lungo tempo pagarono i servizi medici, veterinari ed ostetrici.
Senza dimenticare di scambiare il privilegio del “diritto di cava” con la cancellazione della odiosa tassa sul bestiame.
La fama dei giacimenti di tartufo dell’Umbria aveva travalicato i confini del territorio.
La conferma letteraria arriva dai versi di Pierfrancesco Giustolo, l’umanista spoletino, nato nel 1440, che per anni servì Cesare Borgia e tra una trattativa diplomatica e l’altra trovò anche il tempo di scrivere il De Croci Cultu, un poemetto sullo zafferano, nel quale,
parlando della sua terra, ricordava con fierezza: “E di tartufi abbonda/che di sovente col verace grifo/scava la porca la non rara prole”.
Zafferano e tartufi erano i gioielli alimentari che le città dell’Umbria offrivano come graditissimi doni nelle complesse schermaglie diplomatiche tra i signori del Rinascimento, quando l’assassinio era legalizzato pure a tavola ed erano necessari gli assaggiatori di
professione per poi apprezzare, con la dovuta calma, i piaceri del cibo. In mancanza di veleni, di fronte a tanta abbondanza, c’era però anche il rischio di morire di indigestione.
Si dice che Lucrezia Borgia, signora di Spoleto e di Foligno, che soggiornò in Umbria almeno tre anni, amasse particolarmente i tartufi anche per le note virtù afrodisiache. La storia la ricorda come una irresistibile seduttrice. Forse non era così bella. Morì a meno
di 40 anni, dopo otto parti ed una vita ricca di colpi di scena. Ma la sua passione per i preziosi tuberi contribuì ad alimentare la leggenda erotica del nobile fungo ipogeo. I sudditi spoletini la accolsero nella munita Rocca di Albornoz con un pranzo memorabile,
di 14 portate quasi tutte a base di tartufo.
E così, per i ricchi dell’epoca, il tartufo diventò in fretta un vero “status symbol”. Con l’imprimatur scientifico che già da tempo aveva dato Platina: “È un eccitante della lussuria.
Perciò è servito frequentemente nei pruriginosi banchetti di uomini ricchi e raffinatissimi che desiderano essere meglio preparati ai piaceri di Venere”.
Insieme a lui e dopo di lui, tutti i medici italiani del tempo concordavano sul potere afrodisiaco dei tartufi.

Dalla pubblicazione della Camera di Commercio di Perugia “Black & White Di quale tartufo sei? STORIE, LEGGENDE, CURIOSITÀ

ciarlatano

Tartufi…Gli elisir d’amore venduti nelle fiere dai “cerretani”

I ciarlatani preparavano elisir d’amore all’essenza del tartufo nero che poi vendevano dappertutto. E di tartufi se ne intendevano come forse nessun altro. Anche perché il termine stesso di ciarlatano viene da “cerretano” e indica gli abitanti di Cerreto, che ancora
oggi è una delle piccole patrie del fenomenale tubero.
Quei personaggi che affollavano le fiere di tutta Europa, maghi, occultisti, imbonitori, pranoterapeuti, astrologi ed alchimisti, partiti dalla sperduta Valnerina, salivano su improvvisati sgabelli e richiamavano le folle dei mercati con plateali azioni dimostrative e
abili artifici retorici.
Il tartufo, che fin dall’infanzia era parte naturale della loro dieta alimentare, di colpo era diventato l’ingrediente ricorrente di medicamenti miracolosi, capaci di curare l’impotenza o di risuscitare la lussuria.
Per Castore Durante, umbro di origine, famoso botanico del Cinquecento, che fu anche medico del papa, quei funghi potevano stimolare gli appetiti venerei proprio perché “hanno sapore di carne”.
Secondo lui, addirittura avevano sessi diversi: i neri erano maschi e i bianchi femmine. E anche se era nato a Gualdo Tadino, zona ancora oggi famosa per il “tuber magnatum Pico”, le sue idee sull’argomento erano quantomeno singolari. Nella sua opera più
famosa, Il tesoro della Sanità, un vero e proprio trattato di dietetica, dice addirittura che “son composti di sostanze più terrestri che acquose e son privi d’ogni sapore”. Propone anche di usarli come deodorante e metterli “nelle cassapanche per dare ai vestiti il loro non ingrato odore”. E consiglia di cuocerli “in teglia con sale, pepe, olio e succo d’arancio” oppure, dopo averli lavati bene con il vino, di scaldarli “sotto la cenere”. Raccomanda anche che “si faccino bollire in brodi grassi con cannella, e appresso si beva buon vino e puro”.
Nella mistica Umbria anche le suore perdevano la testa per i tartufi. La scrittrice Giovanna Casagrande ha scovato negli archivi di un convento perugino una ricetta, poi riportata nel libro Gola e preghiera nella clausura dell’ultimo ’500, nella quale le monache consigliano di servire l’alimento afrodisiaco insieme alle melangole, le arance amare che si raccoglievano a gennaio: “Pulisci e friggili nell’olio: fa delle fette sottili e quando l’olio bolle mettili dentro aggiungendo del sale. Non ce li tenere troppo perché si induriscono.
Servili cospargendoli di pepe e succo di arance”.

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TARTUFO E SCROFA

Il tartufo in Umbria: scrofe al guinzaglio con un anello incastrato sul grifo

Scrofe al guinzaglio con un anello incastrato sul grifo Forse perché all’epoca i porci non venivano fatti pascolare. E il metodo più antico per la cava dei tartufi, per secoli, è stato proprio quello di andarli a cercare affidandosi ai maiali. Anzi, alle scrofe. Condotte al guinzaglio dai contadini e capaci di trovare un tartufo anche tre metri sottoterra: attratte dalla somiglianza tra il profumo del tubero e l’odore degli ormoni sessuali secreti dal verro, il maiale maschio, sarchiavano voraci il terreno e scovavano tartufi a ripetizione.
Un fiuto eccezionale. Anche se c’era qualche controindicazione. Come quella, ben conosciuta, di evitare che dopo aver trovato il tartufo lo divorassero all’istante. Così i contadini umbri presero l’abitudine, conservata fino al secolo scorso, di incastrare un anello di ferro all’estremità anteriore del grifo, il muso ingombrante dell’animale.
L’altro problema, una volta trovata la scrofa giusta da addestrare, era quello dell’aumento progressivo del peso dei maiali: condurre le grufolanti femmine sui luoghi della ricerca era una attività redditizia ma indubbiamente faticosa. Nella quale gli umbri sono comunque stati, per centinaia di anni, maestri indiscussi.

Come certifica il primo documento che descrive l’uso della scrofa nella cava del tartufo.
È dell’umanista Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, che già nel Quattrocento discettava di cibo del territorio e anche per questo aveva numerosi estimatori, fra i quali spiccava Leonardo da Vinci. Nel suo De honesta voluptate ac valetudine, il primo trattato rinascimentale sull’alimentazione (1468), viene esaltata la tecnica con la quale in Umbria si cercavano i tartufi: “Mirabile è il fiuto della scrofa di Norcia, la quale sa riconoscere i luoghi in cui nascono, e inoltre li lascia intatti, quali li ha trovati, non appena il contadino
le accarezzi l’orecchio”. Più che carezze forse erano strattoni. Ma è proprio vero che del maiale non si butta via niente.

Il tartufo nero più pregiato, quello di Norcia, indiscusso protagonista di molte ricette della cucina internazionale, è citato anche nel primo, celebre romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa, ambientato nel 1327.
Adso, il novizio protagonista della storia, viene presto edotto sulle virtù del prelibato tartufo: “Io non conoscevo ancora quel frutto prelibato del sottobosco che cresceva in Italia, e sembrava tipico delle terre benedettine, vuoi a Norcia (nero) vuoi in altre terre
(più bianco e profumato). Severino mi spiegò che cosa fosse, e quanto fosse gustoso, preparato nei modi più vari. E mi disse che era difficilissimo da trovare, perché si nascondeva sotto terra, più segreto di un fungo…”.
Un cibo che per buona parte del Medioevo rimase misterioso tanto da alimentare leggende.
Nel suo best seller Eco, giocando con le parole, fa dire ad Adso: “Ricordo anzi che più avanti negli anni un signore dei miei paesi sapendo che conoscevo l’Italia, mi chiese come mai aveva visto laggiù dei signori andare a pascolare i maiali, e io risi comprendendo che invece andavano in cerca di tartufi. Ma come io dissi a colui che questi signori ambivano a ritrovare il “tartufo” sotto la terra per poi mangiarselo, quello capì che io dicessi che cercavano “der Teufel”, ovvero il diavolo, e si segnò devotamente guardandomi sbalordito. Poi l’equivoco si sciolse e ne ridemmo entrambi”.

Tratto dalla pubblicazione della Camera di Commercio di Perugia “Black & White – Di quale tartufo sei? STORIE, LEGGENDE, CURIOSITÀ”